La vita oltre Halloween: una riflessione a partire dalla fine
I doni della morte
C’erano una volta tre fratelli che viaggiavano lungo una strada tortuosa e solitaria al calar del sole. Dopo qualche tempo, i fratelli giunsero a un fiume troppo profondo per guardarlo e troppo pericoloso per attraversarlo a nuoto. Tuttavia erano versati nelle arti magiche, e così bastò loro agitare le bacchette per far comparire un ponte sopra le acque infide. Ne avevano percorso metà quando si trovarono il passo sbarrato da una figura incappucciata. E la Morte parlò a loro. Era arrabbiata perché tre nuove vittime l’avevano appena imbrogliata: di solito i viaggiatori annegavano nel fiume. Ma la Morte era astuta. Finse di congratularsi con i tre fratelli per la loro magia e disse che ciascuno di loro meritava un premio per essere stato tanto abile da sfuggirle.
(Harry Potter e i Doni della Morte)
Inizia così “La Storia dei Tre Fratelli”, un racconto per bambini uscito dalla penna di J.K Rowling all’interno dell’ultimo volume della (meravigliosa!) Saga di Harry Potter. In effetti, questa è solo una delle moltissime storie che raccontano l’incontro con la morte, spesso personificata come una specie di astuta strega, ma che altrettanto spesso cela in realtà una personalità meno spaventosa, quasi fosse una vecchia amica (“Samarcanda” di Vecchioni, tanto per citare un esempio). Oggi è il 31 ottobre e si avvicinano la festa di Ognissanti e la cosiddetta “Festa dei morti”. Per questo, quando ho iniziato a pensare all’argomento di questo articolo, mi è subito venuto in mente che potesse essere un’ottima occasione per parlare… della morte. Che allegria, eh?! È una realtà che ci viene messa costantemente davanti agli occhi dai giornali, dall’orrore delle guerre a quello casalingo della cronaca, eppure quante volte ne parliamo per approfondirne il senso e cercare di trarne qualcosa di buono per la nostra vita?
Una scomoda verità
“Ricordati che devi morire!!” – “Sì, sì, no, mo’ me lo segno proprio” (Non ci resta che piangere)
Un po’ come quando parliamo con un’amica di quelle fin troppo sincere, che ci mettono di fronte alle crude verità che non vorremmo sentire, fa bene ricordarci qualcosa di ovvio, ma spesso dimenticato: il fatto che moriremo, è un’assoluta certezza. Il secondo fatto è che se siamo persone tendenzialmente sane, nella maggior parte dei casi – di fatto – non sappiamo come né quando avverrà.
Anche se questo a volte potrebbe generare ansia e stress, come molti altri prima di me penso invece che questa consapevolezza possa fare molto bene alla nostra vita. Temere la morte è senz’altro saggio, ma anche farci bloccare dalla paura che tutto possa finire all’istante può ottenere lo stesso effetto: limitare la possibilità di godere al massimo di questa vita, dandole il giusto valore in ogni momento.
Partire dalla fine
Quando studiavo cinema all’università, mi ha sempre colpito il fatto che per scrivere una storia che funzioni, in realtà, si debba partire dalla fine: all’interno della storia il nostro protagonista deve passare da una condizione A (in una commedia, sarà una situazione negativa) a una condizione B (una situazione più positiva) e più queste due condizioni sono distanti tra loro, più difficile e piena di ostacoli sarà la strada che il protagonista dovrà percorrere, più sarà grande la soddisfazione finale del personaggio e, soprattutto, di noi spettatori che ci saremo immedesimati in lui. Perciò, quando un autore non sa come andrà a finire quel libro o quel film che vuole scrivere, avrà un bel po’ di problemi a strutturare in modo significativo e profondo il resto della storia.
In realtà, a pensarci bene, si procede nello stesso modo anche quando si imposta un progetto di lavoro: in base a come e quando dovrà avvenire la consegna finale, si procede a ritroso individuando tutte le attività che andranno realizzate prima di quel momento, in una precisa sequenza, e con sotto-obiettivi specifici.
Penso che la stessa cosa valga per la nostra vita: se non ci confrontiamo con la persona che vorremo essere quando ci verrà chiesta la nostra vita, difficilmente sapremo orientare oggi le scelte che ci faranno diventare, giorno per giorno, quella persona.
E come si diventa, giorno per giorno, la versione migliore di noi stessi?
Innanzitutto andrebbe fatta una premessa: quante volte oggi ci sentiamo dire, dalle pubblicità, ai film: “puoi essere tutto ciò che vuoi”. Ecco, trovo questa affermazione quantomeno imprecisa, fuorviante e spesso causa di parecchia frustrazione diffusa. Penso che ognuno di noi abbia in sé il profondo potere di plasmare la realtà e il proprio carattere per diventare la versione migliore di sé e, attraverso questo, fare moltissime cose anche estremamente diverse tra loro. Ma credo, con Aristotele, che “la materia è potenza”, ovvero che possiamo tramutare in atto ciò che siamo in potenza.
Proprio come un seme: un seme di ciliegio potrà diventare molto grande o restare piccolo, potrà crescere in una zona oppure in un’altra e sviluppare profumi e sapori che verranno influenzati dall’ambiente che avrà intorno… ma non produrrà mai zucche o peperoni e nemmeno potrà mai diventare un elefante. Questo significa che il ciliegio è limitato nella propria libertà di autodefinirsi? Beh.. sì! Ma il limite, come i creativi sanno bene, spesso è una delle migliori benedizioni, perché ti stimola a dare il meglio di te e nello stesso tempo ti dà moltissime informazioni che ti permettono di iniziare il tuo lavoro, mentre tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita come avere un orizzonte infinito di possibilità ci abbia più spesso paralizzato che esaltato. Il fatto di avere dei “guard rail” che ci segnalano i bordi della strada, non significa che non avremo sempre e comunque la libertà di orientare al meglio la nostra vita. Ovviamente si tratta di un tema, quello della libertà e dell’autodeterminazione, su cui filosofi di tutti i tempi si sono interrogati e non pretendo assolutamente di aggiungere qualcosa alla discussione secolare, però mi accorgo di quanto sia importante discutere su questi temi da cui dipende il valore delle nostre scelte quotidiane. Perciò, se vi va, su questo mi piacerebbe tanto conoscere la vostra opinione.
La morte che fa bene alla vita
Anche se viviamo in una società che ci spinge alla ricerca ossessiva del comfort, credo che, come in montagna, le vette più alte e più spettacolari si raggiungano con un po’ di impegno e fatica. Con un termine un po’ bistrattato, potremmo dire di “sacrificio”. Si tratta di un termine che deriva dal latino “sacrificium”, sacer + facere, “rendere sacro” e, a pensarci bene, è un concetto che ha molto a che fare con la relazione (con noi stessi, con gli altri, con Dio). Trovo molto bello il concetto che rinunciare a qualcosa di sé per gli altri significhi in qualche modo rendere sacro quel gesto, quel dono e – per proprietà transitiva – il rapporto con la persona a cui è dedicato.
Quanto è più bello vedere quell’impegno quotidiano che ci fa spendere per la nostra famiglia, per i nostri figli, come l’atto di rendere un po’ più sacro quel rapporto?
Di più. Non solo accettare, ma accogliere quelle fatiche quotidiane come l’occasione per permettere contemporaneamente a due fiori di sbocciare: quello dell’altra persona e il nostro. La natura, su questo, è una grande maestra di vita, perché ci mette sempre davanti agli occhi che nessuna grande trasformazione avviene senza un altrettanto grande sforzo: dal bruco che diventa farfalla in poi.
La morte raccontata ai nostri figli
Ricordo ancora una sera in cui mio fratello maggiore venne a cena e poi mise a letto il mio figlio più grande, all’epoca di 5 o 6 anni, raccontandogli una storia. A luce spenta, bacino della buona notte già dato, mio figlio buttò lì: “zio, cosa succede quando si muore?”. Per fortuna me la sono svignata in tempo!! Scherzo, ovviamente, ma neanche troppo.
Non so se all’epoca sarei stata in grado di articolare una risposta di senso, sta di fatto che l’anno scorso è venuta a mancare mia nonna, a cui i miei figli erano molto legati. È stato doloroso vedere la sofferenza nei loro occhi, ma ho anche capito quanto sia stato importante parlare con loro della morte, di cosa significasse per loro. Ricordo che mia figlia, di 8 anni, ci disse: “La cosa che mi dispiace di più è non poterla più abbracciare, non poterle più dire che le voglio bene”. Penso sia anche per questo che nelle varie culture si dedichi almeno un giorno all’anno ai propri morti: perché è importante ricordarci delle persone a cui abbiamo voluto bene e il cui amore continua a essere forte nel nostro cuore.
Anche per questo non amo molto Halloween: non solo perché la ritengo una festa che non ci appartiene culturalmente, ma soprattutto perché, un po’ come per il Natale, è diventata una nuova occasione per spendere dei soldi piuttosto che per riportare la nostra attenzione sulle cose che contano davvero. Invece, aver dedicato del tempo a esplorare le nostre emozioni, a parlare della nonna con gratitudine per averla avuta tanto con noi, per tutto quello che ci ha insegnato e donato e per l’amore e la gioia che abbiamo potuto portare nella sua vita, ci ha permesso di passare attraverso quel dolore e uscirne più forti, più uniti, più radicati.
Qualche strumento pratico
Non voglio raggiungere l’immortalità con il mio lavoro. Voglio raggiungerla non morendo.
(Woody Allen)
Quindi, per tornare sul pratico che mi contraddistingue, proviamo a vedere qualche spunto per portare nella nostra vita di tutti i giorni questa “fine” che ci aiuta a migliorare il percorso:
Per quanto possa sembrare banale, rimaniamo spesso incastrati troppo indietro o troppo avanti. Ricordarci invece che il passato ormai è andato e il futuro non sappiamo bene come e quanto ne avremo, ci può aiutare a stare nel momento presente cercando di trarne il meglio. Sì, perché nel presente ci dobbiamo stare, proprio come un luogo e non come un istante indefinito.
Come suggerivo anche nell’articolo sulla resilienza, ci siamo un po’ abituati a rifuggire il sacrificio, anche perché sul momento ci fa sentire meglio, ma a lungo andare è realistico ritenere che non ci porterà molto lontano. Perché non provare allora a “rendere sacra” la fatica di ogni giorno e a godere di tutto ciò che ne deriva?
Per quanto a volte possa sembrare difficile, possiamo imparare ad attraversare le intemperie della vita, anche quelle più spaventose, cercando di cogliere le opportunità nelle criticità: anche se pensiamo che tutto questo ci ucciderà, nella maggior parte dei casi non è così, mentre più probabilmente ci darà l’occasione di uscirne più forti.
Concentriamoci sugli aspetti positivi: ogni situazione è sempre almeno un po’ migliorabile, ma il perfezionismo portato all’estremo non ha mai reso felice nessuno (almeno credo). Una buona alternativa, almeno da provare, è quella di lasciare spazio ad una sincera e quotidiana gratitudine per ciò che abbiamo per ciò che siamo, piuttosto che vedere solo ciò che non abbiamo o abbiamo perso.
Si stima che nell’arco di una vita passiamo circa 5,7 anni sui social. Ora, oziare è sacrosanto e un po’ di scroll ogni tanto è liberatorio, ma quello che può fare la differenza è trovare attività realmente rigeneranti, che ci restituiscono energia invece che togliercela e a cui valga davvero la pena dedicare la nostra attenzione. La vita di una mamma professionista può essere veramente impegnativa e tende a lasciare pochissimo tempo al riposo, per questo più di tutti abbiamo bisogno di ricaricare le batterie nel modo più efficace possibile.
Diamoci il tempo per scoprire quali sono veramente i nostri talenti e mettiamoli a frutto oggi, ora, senza rimandare, perché non sappiamo se domani ne avremo l’occasione.
In fine
“Ci sono solo due modi di vivere la vita. Uno è come se nulla fosse un miracolo. L’altro è come se tutto lo fosse.”
(Albert Einstein)
In questa splendida occasione di un giorno in più di vacanza, vi lancio la sfida (e la lancio pure a me!) di dedicare almeno 5 minuti al giorno alla gratitudine per aver avuto quella persona nella vostra vita, alla curiosità su quanto di buono c’è in voi e nelle persone attorno che potrebbe sbocciare grazie a un po’ di impegno e, in definitiva, a pensare a quali benefici può portare alla vostra storia il fatto di mettere nell’equazione anche la fine.